Adolescenti nel “pallone”…
Adolescenti nel “pallone”…
Da quinta di sei fratelli, ho curato e cresciuto mia sorella più giovane di 5 anni sostituendo per diverse ore mia madre quando era al lavoro. Non so se ho ben eseguito il mio compito di allora, ma non c’è dubbio che a distanza di tanti anni il rapporto che si è creato a quel tempo continui ad essere molto forte e ci consenta di condividere, ancora oggi, le gioie e i problemi quotidiani.
Una cosa però ci divide: la passione per il calcio. Lei lo ama, io lo odio.
Suo figlio, che è un maschio quindicenne, come la maggiore parte dei suoi coetanei, concepisce l’idea di fare sport solo correndo dietro ad una sfera. Ha cominciato da piccolo ed essendo fisicamente molto dotato, ha raggiunto rapidamente la possibilità di giocare in una squadra giovanile importante.
A. ha iniziato così una vita di sacrificio: un centinaio di km al giorno in treno per 3 volte la settimana, allenamenti di sostanza, la partita alla domenica, spesso molto lontano da casa. Con qualche spiacevole conseguenza: la scuola non è più la priorità ed i risultati ne risentono. Ma lui è contento, si diverte, vive il calcio come un gioco, come una grande occasione per socializzare e nello stesso tempo, come un impegno da onorare.
Ben presto però cominciano i problemi: qualche difficoltà di relazione con il mister che lo rimprovera con implacabile costanza, la sensazione che gli errori compiuti in campo sovrastino in numero e gravità le magre soddisfazioni che si portano a casa, un’autostima, peraltro già scarsa negli adolescenti, che finisce sotto le scarpette da pallone.
Seguo, seppure da lontano, questa parabola e la mia poca considerazione delle virtù del mondo calcistico mi suggerisce qualche riflessione: A. non sarà un campione ma convocarlo e non farlo mai giocare assomiglia, a mio parere, a pura cattiveria.
Intanto lui è sempre più svogliato. Continua a non andare bene a scuola e per di più vuole smettere di giocare. E così mia sorella, che probabilmente all’inizio pensava di avere un Totti in casa, decide di prendere in mano la situazione. Non fa polemiche (tristi le madri che si mettono a questionare sulle presunte incapacità del mister di comprendere le straordinarie doti della propria discendenza!) e si attiva per trovare un modo per riportare mio nipote a giocare in una squadra, magari meno blasonata, ma più vicina a casa. E, in men che non si dica, lui riprende a giocare con passione, migliora la performance scolastica e si fa anche una morosa.
Ora, forse mio nipote non ha il talento necessario per giocare in seria A. Ma questo vale per lui come per migliaia di giovani nostri connazionali. Dunque, non è questo il problema. Semmai lo è il fatto che, come spesso succede, il mondo dello sport (quindi non solo il calcio), nella spasmodica, per quanto legittima, ricerca del fenomeno da lanciare nell’empireo, finisca per “aiutare” un sacco di ragazzi ad abbandonare l’attività sportiva.
Alla faccia della “mens sana in corpore sano“. Tutti sappiamo che l’attività sportiva dovrebbe essere sostenuta e motivata anche perché, iniziata nell’adolescenza, previene l’obesità, la sindrome metabolica, le malattie cardiovascolari, vere piaghe dell’età adulta.
Su tanti giornali sportivi si sottolinea come il calo più marcato dell’adesione allo sport si verifichi proprio nell’età adolescenziale. La spiegazione che viene data di questo fenomeno viene spesso legata alla delusione prodotta da aspettative troppo elevate nei ragazzi e soprattutto nei loro genitori. E probabilmente, almeno in parte, le cose stanno così.
Ma questa storia che la colpa di tutti i mali del mondo sia alternativamente o della famiglia o della scuola, appare francamente assolutoria delle responsabilità che si annidano anche altrove.
Per esempio, siamo proprio sicuri che non sia lo stesso sport e le assurde regole di selezione che lo governano a causare il precoce abbandono dell’attività fisica da parte dei ragazzini e ad incoraggiare un quattordicenne deluso e sconfitto a preferire il divano e ore e ore di videogiochi e playstation? Se è vero che l’attività sportiva rappresenta la forma migliore di prevenzione delle malattie del nostro tempo, chi si occupa di sport giovanile dovrebbe farsi qualche domanda.
Dunque mister, allena pure duramente, levagli dalla testa tutte le facili illusioni che si è costruito persino con la complicità di mamma e papà, ma premettigli di esprimere il meglio di sé, dando senso non solo al suo limite ma anche al suo valore. Comportati da educatore, oltre che da tecnico, e prova a far scaturire da ognuno dei tuoi ragazzi il loro talento.
Non diventerà un campione? Non ha importanza. Sforzati di realizzarlo. E anche se il sogno che si porta nel cuore è sproporzionato alle sue reali possibilità, fa in modo che questo sogno continui a sostenere la sua voglia di giocare e mettersi in gioco.